mercoledì 3 ottobre 2012

I frutti dimenticati:storia e tradizione popolare

Le prime citazioni dei frutti dimenticati, cioè di frutti prodotti da antiche cultivar oggi abbandonate, o quasi, come azzeruoli, corbezzoli, avellani, cornioli, cotogni, giuggioli, castagni, melograni, mandorli, certe varietà di meli e peri, mori, nespoli, sorbi, le troviamo nel tardo Medioevo, man mano che si sviluppa l'arboricoltura con una progressiva domesticazione della raccolta dei frutti spontanei. Negli statuti comunali romagnoli successivi al Trecento, tra gli arbores domesticae, troviamo citati: nuces, olivae, ficus, amygdali, pruni, avellanae, persici, mori, piri, mali, melagranata, cerasi, castanae domesticae.
Nel corso dei secoli le citazioni e le descrizioni si fanno via via sempre più frequenti e precise e questi frutti entrano anche nelle cronache quotidiane della valle del Senio. Quando, ad esempio, la mattina del 19 ottobre 1506, Papa Giulio II sostò a Palazzuolo nel corso di una faticoso trasferimento da Forlì a Imola attraverso le strade della montagna, quel piccolo comune offrì al pontefice e al suo seguito una frugale colazione con pane, vino e pere spadone. In una cronaca di Casola Valsenio dell'anno 1559 risulta che "in vista delle grazie ottenute dal Presidente di Romagna venne a lui fatto un piccolo dono di sei corbe di Maroni, di dodici paia di Caponi, di libre cento di Formaggio Marzola, di cento pomi da Rosa dette mele Paradise, di quaranta Tordi e due Lepri".
Più tardi troviamo descrizioni più dettagliate anche sulla presenza degli alberi da frutto. Nell'orazione La valle del Senio del 1837, Vincenzo Ballestrazzi, elencando le specie vegetali più diffuse nella vallata annovera "l'acero, il cornio, l'irsuto corbezzolo, il mirto selvaggio" e, a proposito del castagno, scrive: "Tutto nei nostri monti è calcato dè suoi rami felici: i suoi frutti o molli, o secchi aggustano: da lui è l'unico fonte che sostenta la vita del montanaro, che gl'imbandisce la cena, che gli compra il grano e le vesti". E poco più di quarant'anni dopo, Luigi Biffi, nella Memoria intorno alle condizioni dell'agricoltura e della classe agricola nel circondario di Faenza scrive: "Le piante arboree che crescono nel circondario di Faenza, notando che ne espongo i nomi con ordine tale da indicare fra le prime quelle più diffusamente coltivate e man mano quelle che più raramente si incontrano, sono - Olmi - Quercie - Gelsi - Oppii - Pioppi - Gattici - Peri - Meli - Prugni o Susini - Peschi - Ciliegi - Fichi - Albicocchi - Sorbi - Salici - Olivi - Noci - Castagni da frutto - Mandorli- Nespoli - Giuggioli - Platani - Acacie - Pini - Nocciuoli - Avellani - Melagrani - Vimini o Salici gialli - Frassini - Tigli - Azzeruoli - Castagni d'India - Aceri - Elici".
Piante come meli e peri erano presenti in numerose varietà, risultato di innesti, di esperimenti e di adattamenti secolari, indicate comunemente con termini dialettali che si rifacevano alla forma, al colore, al sapore, al periodo di maturazione di frutti conosciuti come méla da rosa (mela rosa), méla apia (mela appiola o casolana), méla rèzna (mela ruggine), méla musabò (mela arpiona), méla zôgna (mela giugnola), méla piatlôna (mela panaja), méla ranâtta (mela ranetta), méla pupêna (mela poppina), méla franzesca (mela francesca), méla cucôna (mela calvilla), méla durona, méla rôssa, méla righeda. Per quanto riguarda le pere si devono citare la péra asnazza (pera sangermana), péra biancôna (pera biancona), péra brôtta e bôna (pera bugiarda, detta anche brutta e buona), péra butira (pera burrosa), péra da l'inverân (pera dell'inverno o vernereccia), péra dòcca (pera spina o cosima), péra garôfana (pera garofana), péra limôna (per arancina), péra muscatella (pera moscadella), péra rêzna (pera ruggine), péra spadôna (pera boncristiana o spadona), péra vuipâna (pera volpina), péra zôgna (pera giugnolina), péra zucharâna (pera zuccherina).
I prodotti delle piante da frutto domestiche o spontanee che crescevano vicino alle case coloniche, nei campi o nei boschi, erano destinate al consumo domestico o al piccolo mercato locale. Oggi mangiare castagne, noci, nocciole, giuggiole, azzeruole, melegrane e così via, può apparire un piacere del palato e così era anche in passato, quando nelle sere di veglia si consumavano i frutti conservati nei solai.


Frutti che aiutavano anche a combattere meglio il freddo dell'inverno grazie al loro potere calorico: il gheriglio della noce, ad esempio, costituisce un alimento quasi completo, con un altissimo numero di calorie. Essi rappresentavano gli strumenti della sopravvivenza anche dal punto di vista psicologico: mettere al riparo nei grandi solai noci, avellane, mandorle, castagne, noci, corniole, cotogni, giuggiole, melegrane, nespole, pere, mele e sorbe, in attesa della maturazione o per la conservazione, dava sicurezza e permetteva di affrontare l'inverno con la consapevolezza che, in ogni caso, c'era qualcosa da mangiare, così come era o insieme al pane.
Ma alla lunga anche questi frutti non risultavano più tanto appetibili, perché il loro consumo era quasi obbligatorio, non essendoci molte alternative.

Sintetizzano bene questo concetto due detti popolari inerenti alle noci. Dice il primo: Pân e nus,un magnè da spus (Pane e noci, un mangiare da sposi), al quale si contrappone: Nus e pân,un magnè da cân (Noci e pane un mangiare da cani).
Pane fresco e noci rappresentavano infatti per il contadino una parca ma gustosa colazione che, però, se ripetuta, si poteva trasformare in un mangiare da cani, nel senso che identificava una condizione economica misera.
Lo stesso si può dire per i marroni e le castagne, freschi o sfarinati, cotti o bolliti, rappresentavano per la popolazione dell'alta valle del Senio la componente alimentare più importante da novembre fino a marzo. è vero che l'ingegno e la fame della popolazione montanara erano riusciti nel corso di secoli ad inventare tanti modi di cucinarle (aròst, balôs, castron, spasimanti, cuciarùl, castagn sechi, polenta, castagnâz), ma anche per le castagna il suo consumo si ripeterà ogni anno e quindi era un cibo sempre meno appetibile e anche motivo di malattie dovute alla monoalimentazione.

Anche questa condizione è resa bene da una filastrocca dell'alta valle del Senio che recita: La maténa a colaziô,/ socce e lebbrocce,/ castagne e marô./ E dé a desné,/ socce e lebbrocce,/ castagne e brusé./ E la sira pu da zâna,/ socce e lebbrocce,/ castagne e farâna. (La mattina a colazione,/ le ballotte,/ castagne e marroni./ Il giorno a desinare,/ le ballotte,/ castagne e bruciate./ E la sera poi da cena,/ le ballotte,/ castagne e polenta).
Così che, nel dopoguerra, quando la popolazione contadina ha via via abbandonato l'alta collina, queste piante sono state abbandonate e i loro frutti sono stati dimenticati senza un gran rimpianto. Un abbandono a cui hanno contribuito anche esigenze di mercato nuove e diverse, nuovi sistemi di conservazione e la trasformazione della società italiana da agricola in industriale, con conseguente scomparsa della civiltà contadina e delle antiche abitudini alimentari della popolazione della campagna.
Questa, identificando quei frutti come un "mangiare povero", appena ha conquistato un certo benessere tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ne ha abbandonato il consumo per scrollarsi di dosso, così come è avvenuto per il dialetto, un segno distintivo e palese di una condizione sociale ed economica inferiore. La classe borghese consumava sì quei frutti, ma in modo molto più limitato ed elaborato, così che essi conservavano intatto tutto il fascino alimentare e il piacere per la gola. Basta scorrere La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, pubblicato da Pellegrino Artusi circa un secolo fa, per trovarvi una decina di ricette dedicate agli stessi frutti consumati dai contadini, ma qui sono presentati in una versione ben più elaborata e appetibile: budino di mandorle tostate, dolce di marroni con panna montata, composta di cotogne, soufflet di castagne, gelatina di cotogne, conserva di azzeruole e conserva di more.
Il recupero degli aspetti positivi del mondo contadino, della sua cultura, dei suoi modi di vita e delle sue abitudini alimentari, che si è affermato tra gli anni Ottanta e Novanta, ha riproposto il consumo di frutti come azzeruole, corbezzoli, nespole, melegrane, sorbe, corniole e così via. Frutti dai sapori e dai profumi carichi di novità per chi non li ha assaggiati in passato e di suggestione per chi li conosceva ma che in non pochi casi li ha quasi dimenticati.
Ed oggi ritornano grazie ad agricoltori che, per amore o nostalgia del passato, hanno salvato dalla morte vecchie piante o ne hanno collocate di nuove e grazie anche ad iniziative come quella della "Festa dei frutti dimenticati" di Casola Valsenio. Una festa che li ripropone alla attenzione di turisti, visitatori, studiosi e di chi non li ha finora conosciuti sotto l'aspetto alimentare, ma solo come elementi identificativi di una condizione ambientale ed umana tipica della collina faentina e più in generale di quella regionale. Ce lo ricorda il modenese Giacomo Castelvetro, espatriato a Londra nella prima metà del XVII secolo, dove scrisse un "Brieve racconto di tutte le radici, di tutte le erbe, di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano", per ricordare, sul filo della memoria e della nostalgia, i sapori e i profumi della sua terra, comprese mandorle, mele paradise, nocciole, noci, giuggiole, corniole, melegrane.